“I costumi e le convinzioni cambiano; la gente rispettabile è l’ultima a saperlo, o ad ammettere il cambiamento; alcuni si potrebbero offendere specchiandosi nello specchio dell’arte”
John Updike
“La vita si misura dalla rapidità del cambiamento, dalla successione delle influenze che modificano l’essere”
George Elliot
Nelle società tradizionali il “vecchio” era il saggio e aveva il rispetto generale. Negli ultimi venti anni le cose sembrano molto cambiate ed il trascorrere del tempo e “l’ invecchiare” è associato (sia negli uomini che nelle donne – e specialmente in queste ultime – ) a connotazioni sempre più negative.
Per capirci facciamo un giochino.
Prendiamo le prime 1000 donne che passano per la strada. Le mettiamo all’ interno di 1000 cabine e diamo a loro la “bacchetta magica” che ha l’incredibile proprietà di “trasformare” fisicamente e psicologicamente in quello che il soggetto vuole.
Qui facciamo la domanda?
Come usciranno le 1000 donne dalle cabine?
Avranno ancora la cellulite? Come sarà il loro naso o la loro bocca? Ed il seno come sarà? E la loro età come sarà?
E a livello psicologico saranno ancora tormentate dai dubbi o timorose o al contrario saranno determinate e sicure?
Mi sembra facile la risposta.
Tutte avranno fra 30 e 35 anni, la 3° di seno, senza un filo di cellulite, gli occhi verde azzurri magnetici e splendenti, la bocca a cuore con labbra perfettamente disegnate.
Eleganti ed affascinanti ma anche determinate, decise “con le palle”. Insomma tutte uguali.
E per gli uomini… E’ lo stesso. Tutti alti 1,90 metri spalle larghe, muscoli ben disegnati (specialmente gli addominali), capelli fluenti, occhi penetranti, molto intelligenti fino alla genialità, senza un filo di pancia… Tutti uguali.
Insomma abbiamo disegnato esseri perfettamente normali, degli “dei” senza età, in cui il trascorrere del tempo non lascia traccia nel viso e nel corpo… degli dei (con la d minuscola). Perfettamente normali.. Un po’ come alcuni dei dell’ olimpo…
Poi vi è la seconda parte del giochino…
Proviamo a ricordare quando abbiamo avuto l’ultima volta un’ emozione intensa con un compagno (o una compagna) con il quale si attivava una parte essenziale del nostro “cuore” e proviamo a chieder a lui (a lei) come sono io per te e se questo (questa) ci diceva “perfettamente normale”. Quale emozione ne avremmo avuto?
Anche qui è facile la risposta . Doveva essere rispondere che siamo unici.
Questo “giochino” per sottolineare come i nostri “conflitti” interiori siano facilmente evidenziabili nel rapporto con gli altri (gli altri importanti…). Dobbiamo essere contemporaneamente perfettamente normali e contemporaneamente unici.
Degli dei, bellissimi senza tempo, “perfetti” e nello stesso tempo unici. Ma questa non è una condizione umana. E qui non entro nel discorso dei “chirurghi estetici” o dei “chirurghi psicologici” (il discorso ci porterebbe troppo lontano….).
Io vorrei invece tornare al punto “la frattura degli dei”. Ho dato questo nome perché mi sembra che siamo “fratturati” dentro. Abbiamo (nella profondità della testa) l’immagine di un dio (sempre con la d minuscola) senza tempo, “perfetto” e contemporaneamente unico. E solo un dio può essere così (ed è un dio un po’ banale).
E’ fratturato, senza una “personalità” propria, senza tempo. E’ l’immagine “psico fisica” di qualcuno nell’ Olimpo che risiede nella “nostra profondità”, nelle aree più profonde della nostra mente e ci avvelena la vita.
E poi mi guardo allo specchio “psico – fisico” e mi vedo. Lo specchio “riflette” la nostra immagine. Ma l’immagine che noi mettiamo nello specchio “psico – fisico” è anche quella di quel “dio” che dovremmo essere. E poi vedo che non lo sono.
Sono un dio “fratturato”, quel “io” che vedo nello specchio o quella immagine di riferimento che è allogata in profondità dentro di me.
Se tutte le religioni affermano che “Dio” (con la d maiuscola) è dentro di noi qualche buona ragione dovrà pur esserci. Allora ritorniamo al punto.
E’ indubbio che nel mio mondo interiore esistono “immagini” (qualcuno le chiama anche “archetipi”, si tratta di “figure” probabilmente ereditate, in qualche modo semidivine). Poi queste si realizzano nella mia testa, nella vita e nel mondo che ci circonda perdendo quella “aura” di “divinità”, realizzando l’essere uomo centrato nel “nel tempo e nello spazio” (cioè nel nostro mondo). E sottolineo “centrato nel tempo che trascorre”.
Ed invece ora spesso non è così. Vorremmo che queste immagini interiori semidivine, questo Apollo Narciso che vive nei nostri miti e nei miti dell’ umanità si realizzasse anche al di fuori dell’ Olimpo (e per analogia al di fuori della profondità della nostra mente), vorremmo che rimanesse tale anche nel nostro mondo fatto di tempo e di spazio.
E’ poco più di una banalità pensare che non può essere così, che per fortuna non è così. Eppure… Abbiamo fratturato gli Dei (questa volta con la D maiuscola). Li abbiamo fratturati perché questi devono vivere appunto nell’ Olimpo (e per analogia nella profondità dell’ essere). Poi nel mondo cosiddetto reale deve vivere l’uomo che è in me, con le sue rughe che “disegnano” la vita. E’ il mio libro aperto che posso guardare allo specchio per capirmi.
E questa è la grande “frattura” degli dei. E’ la frattura perché – ripeto – gli dei archetipali devono vivere nella profondità dell’ Essere. E’ invece li vorremmo nel presente, nel qui e ora, nel viso o nella coscienza, nel mondo fatto di tempo e di spazio (che nell’ olimpo – e nella profondità della mente – o non è presente o e comunque diverso dal tempo della coscienza. Dio non è proprio per questo una funzione che “trascende” lo spazio e specialmente il tempo?).
E’ questo che è più facilmente intuibile a livello fisico vale anche sul piano psicologico (il “dio interiore” è senza dubbi, vigoroso, determinato, capace di fare ed essere contemporaneamente, ubiquitario ecc, ecc, ecc).
Un altro aspetto a questo correlato: da sempre la storia dell’ umanità è contrassegnata da “giovani” molto più progressisti e da “vecchi” molto più conservatori.
Non ho l’impressione che ora le cose stiano effettivamente così. Ho l’impressione che i “giovani” (e – per la questione che ci interessa – la parte giovane dentro di noi) sia più conservatrice. Qui devo aprire una parentesi. A volte è più facile vedere negli “altri” i nostri conflitti interiori. E allora – anche in questo senso – può essere utile “osservare” (e specchiare…) gli altri perché rappresentano nel cosiddetto mondo reale le nostre “tensioni interiori”. Chiusa questa parentesi ritorniamo al punto.
Se è così (cioè i giovani e la nostra parte “giovane” non è più progressista) abbiamo di nuovo fratturato gli dei. I giovani (e la nostra parte giovane), la parte di noi che mostra più chiaramente gli archetipi presenti, quella che non si è ancora completamente “umanizzata”, quella che ci determina il cambiamento, la progressione… quella parte più semidivina dell’ uomo sta divenendo più materialista, più legata agli aspetti più “commerciali” della vita.
E’ gli altri sono il nostro specchio. Come diceva un mio amico “gli anni si aggiungono e non si sostituiscono”. Così un uomo di 60 anni ne ha anche 10, 20, 30, 40, 50. E’ quindi ha la parte più divina e quella più umana (o più vecchia) contemporaneamente dentro se che come una pila lo alimenta. E’ il conflitto dell’ uomo che rappresenta la sua forza. Ma se abbiamo “fratturato gli dei” poco rimane anche dell’ uomo.
Da qualche tempo circolano nel mondo della scienza due termini nuovi che potrebbero essere i protagonisti di una vera e propria rivoluzione nel campo dello studio delle relazioni umane. Questi due termini, lo avrete capito già dal titolo, sono “empatia” e “neuroni specchio”. Il primo dei due, che appartiene alla terminologia psicanalitica, in realtà non è affatto nuovo. Il nome deriva dal greco ???????? che, tradotto un po’ liberamente, vuol dire “sentire il dolore altrui dentro di sé”.
Il termine “empatia”, che oggi dilaga in ogni campo della cultura veniva usato già nella Grecia classica per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava il “cantore” al suo pubblico. Ma il suo ritorno in auge in tempi più recenti è merito delle psicanalisi. Ed è stato utilizzato per la prima volta dagli scuole post-freudiane. Freud infatti riteneva che il medico dovesse mostrarsi emotivamente “neutrale” nei confronti del suo paziente, cioè freddo: non doveva raccogliere per alcun motivo le emozioni trasmesse dal paziente. Gli psicanalisti post-freudiani come Heinz Kohut invece, hanno completamente ribaltato questo concetto, valorizzando molto la capacità di percepire le emozioni trasmesse “dagli altri”. Essi ritenevano infatti che raccogliere le emozioni del paziente fosse uno strumento fondamentale per esplorare il suo animo.
Il concetto di empatia è oggi ampiamente utilizzato dalla medicina in generale, che si serve del processo empatico per favorire il flusso di comunicazione fra il medico ed il suo paziente. E’grazie all’empatia che io riesco ad entrare nella sua anima e, così facendo, riesco a vedere il mondo con i suoi occhi. Personalmente tuttavia, quando penso all’empatia, penso ad una frase pronunciata dallo psicologo Gustave M. Gilbert che, durante il processo di Norimberga prestava assistenza ai criminali nazisti sotto processo.
Quando gli chiesero se, a contatto con quegli uomini che avevano freddamente e lucidamente torturato e sterminato milioni di persone, si fosse fatto un’idea di cosa fosse il male assoluto, la sua risposta fu pressappoco questa: “credo che la natura del male assoluto sia costituita dalla mancanza di empatia”. Questa mi sembra la migliore definizione che sia mai stata data del male generato dall’uomo. Spesso ci arrovelliamo nel tentativo di definire e di comprendere i meccanismi alla base del dolore che un uomo può infliggere a un suo simile. Forse la spiegazione è racchiusa tutta in quella semplice frase. Chi fa del male non è capace di “sentire” il “Cuore” dell’altra persona. Specularmente, ciascuno di noi sa bene quanto sia difficile levare la mano per colpire un proprio simile se, anche per un attimo, ci identifichiamo in lui. Diceva Otto van Bismark: “chi ha guardato negli occhi un soldato morente rifletterà prima di intraprendere una nuova guerra”: Certo questa frase non risuonò neppure un attimo nella mente di Hitler prima di scatenare una guerra genocida, Né ha risuonato nella mente dei mille piccoli Hitler che hanno infestato il mondo nei successivi sessant’anni.
Ma è proprio qui il punto: guardare un uomo negli occhi vuol dire rispecchiarsi in quello sguardo, riconoscerlo come il proprio. Vuol dire, in altre parole, guardare il mondo con gli occhi di un’altra persona, fosse anche il nostro peggior nemico.
Ci chiediamo a questo punto, esiste un meccanismo nella nostra mente che determina la capacità di specchiarci, di identificarci nell’altro da noi? E questo meccanismo, se esiste, è già presente nel nostro codice genetico, o è un valore che acquisiamo attraverso la cultura, l’educazione, la religione? Direbbero gli anglosassoni: nature or nurture? La scoperta dei neuroni specchio ha gettato una luce nuova e del tutto inattesa su questa domanda.
I neuroni specchio sono cellule del nostro cervello che si attivano selettivamente, diciamo si “accendono” sia quando compiamo un’azione, sia quando la osserviamo mentre è compiuta da altri. I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” quindi ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se, a compiere l’azione, fosse l’osservatore stesso.
Se l’empatia è un meccanismo legato ai neuroni-specchio, qualcuno potrebbe pensare che, più neuroni-specchio abbiamo nel nostro cervello, più siamo empatici e, se non ci va affatto di essere gentili con il nostro prossimo, poco male in fondo: la colpa non è nostra, ma del destino cinico e baro che non ci ha rifornito a sufficienza di queste preziose cellule. Invece le cose non stanno affatto così. E a chiarirci le idee ci hanno pensato i dati provenienti dalla meditazione dei religiosi più osservati, spiati e studiati nella storia della scienza: i monaci buddisti. Questi uomini pii trascorrono molte ore della loro vita ad allenarsi in esercizi di compassione, in cui, annullando le loro personali pene, preoccupazioni e dolori, si concentrano solo ed esclusivamente sul dolore altrui. Empatia allo stato puro dunque. Vera e propria attività di potenziamento dei neuroni-specchio. Ebbene, studiando il comportamento della loro mente durante questi esercizi, con la risonanza magnetica funzionale, si è osservato come i monaci riescono a concentrare la propria attività in aree specifiche del cervello che risultano, negli anni, suscettibili di un vero e proprio “allenamento”. Dunque il pensiero empatico e, verosimilmente, l’attività dei nostri neuroni-specchio, è un’abilità che può essere allenata.
Certamente il sistema-specchio è alla base dei meccanismi di socializzazione. Riconoscersi in un altro individuo vuol dire accettarlo nella propria vita. Questo ha un valore biologico immenso perché consente la creazione di gruppi omogenei di individui in grado di collaborare fra loro e di costituire un fonte unico contro le avversità. Senza il sistema-specchio probabilmente non esisterebbe la società, ma solo individui isolati, di pessimo carattere e in continua guerra fra loro. Ma forse il valore del sistema-specchio è ancora più grande: potrebbe trattarsi di un sistema di apprendimento globale.
E’facile intuire che i neuroni-specchio, riconoscendo i gesti altrui come propri, consentono l’apprendimento per imitazione. Ma potrebbero essere anche alla base della conoscenza di sé: può sembrare strano, ma l’uomo non è in grado, da solo, di costruirsi un’immagine del proprio io: noi ci vediamo e ci riconosciamo attraverso l’immagine di noi che gli altri ci rinviano. Se un uomo vivesse tutta la sua esistenza in un’isola deserta, avrebbe spaventosi problemi di identità. Insomma, gli altri sono il nostro specchio. Apprendendo dagli altri, impariamo anche a conoscere noi stessi attraverso gli anni ed i cambiamenti interni ed esteriori e che non sono né seducenti né poco attraenti, ma espressioni della nostra forma nel tempo della vita e nella consapevolezza delle emozioni che la segnano, la plasmano e la raccontano.
Siamo circondati da specchi che ci rimandano fedelmente quello che siamo dentro, e lo fanno senza censure o falsità. Essi sono sempre maledettamente sinceri e questo alcune volte dà proprio fastidio, e può far male.
Gli altri, le persone che vivono con noi sono questi specchi, così come noi lo siamo per-loro.
Se una cosa ci appartiene, nel senso che siamo ancora condizionati da essa, attrarremo proprio quel tipo di esperienza sotto la veste di una certa persona che, ignara stimolerà una certa reazione. Tutto quello che accade viene sempre attratto per poterlo risolvere e superare. Ecco perché le esperienze spesso si ripetono sempre uguali.
Il nostro cervello perciò ci fa reagire nello stesso modo perché conosce solo quella soluzione, ed è per questo motivo che si soffre. Si rimane bloccati in un labirinto senza vie d’uscita.
Le persone che incontriamo suscitano delle reazioni che vanno a solleticare quelle parti della personalità che necessitano di una aggiustatina.
Per questo alcune persone possono farci imbufalire, esse hanno il codice d’accesso al nostro io profondo e riescono ad affondare un colpo intenso al nostro sistema energetico.
Tutto è energia, anche pensieri ed emozioni, per questo basta un certo stimolo per innescare determinate reazioni.
Come fare per uscire dal solito dedalo di strade nel nostro cervello? Come accendere nuove sinapsi e quindi nuovi stati d’animo?
Basta accedere al cuore, e prendere coscienza che una certa azione/reazione nasce sempre dal bisogno di capire, conoscere e crescere. E soprattutto occorre cambiare, nella forma e nei pensieri, perchè solo cambiando si può davvero trasformare la propria vita, scoprendo che esistono molte strade, giuste o sbagliate nei diversi momenti ed in rapporto ai vari momenti della nostra esistenza.
Accettare questo cambiamento, questo trascorrere del tempo diviene la nostra sfida. E non solo accettarlo dentro ma anche “fuori”, sulla pelle. E quindi senza più fratture. E grazie a questi meccanismi, senza fretta, comprendere “con il cuore” che tutto può e deve essere leggero. Comprese le nostre rughe o i nostri “errori”. Smettendo di essere dei giudici implacabili di noi stessi e degli altri proprio perchè abbiamo “compreso” il meccanismo interiore che “alimentava questi “giudizi”. E lo abbiamo compreso anche grazie all’ empatia ed al rapporto con gli altri…
Lasciamo quindi gli dei nel loro luogo (l’olimpo, il Cuore o la profondità della mente). Li lasciamo li, nel loro senza tempo e legati al tempo stesso, nei loro cambiamenti e nella loro immutabilità (loro possono sono Dei). E vediamo i loro “figli umani” (cioè noi) con la nostra “debolezza, umanità e unicità. Vediamo noi e “gli altri” che sono in noi, i nostri “specchi asettici”e contemporaneamente le nostre passioni. E difficile avere una passione senza “l’altro”. E ancora più difficile avere una passione senza noi.
“Da 20 Tonnellate di marmo di Carrara qualcuno ricava “LA PIETA'”
e qualcun altro dei sassi da gettare nel mare”
M. C. Nidarro